Le storie sono già contenute nei luoghi, una buona sceneggiatura contribuisce a manifestarle in un film ma una buona fotografia ne tira fuori l’anima. 2 Ottobre, eccoci in Kenya! Stefano e Francesca sorridenti come al solito, ci accolgono con un caldo abbraccio all’aeroporto di Nairobi. Sono contento di partire per questa nuova avventura africana. Il truck arancione è lì, pronto alla sfida con le terribili strade keniote. Ricordo l’effetto che mi fece l’anno passato quando lo vidi per la prima volta: imponente, aggressivo, maestoso. Rivedo emozioni simili negli occhi dei “nuovi” partecipanti. Un’ammirazione mista a sorpresa per quel mezzo che ci dovrà trasportare per oltre 20 giorni e che diventerà la nostra seconda casa viaggiante. Ormai l’esperienza mi ha insegnato che la buona riuscita di un viaggio fotografico sta in un giusto equilibrio di elementi diversi, alcuni dei quali difficilmente prevedibili e programmabili. Prima di tutto la possibilità di fotografare. Può sembrare una cosa banale, ma vi posso garantire che non lo è. La tipologia di questi viaggi e le caratteristiche del mio modo di fotografare legano in maniera imprescindibile la soddisfazione dello scatto alla disponibilità della gente a farsi riprendere. E’ per questo che cerco sempre dei posti in cui il turismo “classico” non abbia ancora contaminato in modo irreversibile le realtà autoctone. Mi tranquillizzo, ma non sarà purtroppo sempre così, quando subito fuori Nairobi ci fermiamo in una fabbrica di “sisal”, corde ottenute dalla lavorazione di una pianta fibrosa locale. Veniamo accolti con entusiasmo e il nostro fotografare crea un momento di distrazione agli operai al lavoro. Pierangelo, laureato in fisica con specializzazione nel campo dell’ottica, al suo primo viaggio fotografico rimane molto colpito dall’approccio mio e di altri “veterani” dei “miei” viaggi – come Luigi, Ric e Daniela – alla fotografia di reportage. Come ho avuto modo di scrivere anche in passato, il reportage in fotografia è un mezzo decisamente invasivo di scattare. Si deve necessariamente entrare “dentro” al soggetto per raccontare quello che stiamo vedendo; l’uso del teleobiettivo è quindi limitato ad alcuni primi piani, di conseguenza il grandangolo è la lente maggiormente usata. Steve McCurry afferma che il fotoreporter deve avere, quando scatta, l’istinto del killer. Con i debiti distinguo – io non sarò mai il fotografo di guerra che talune volte antepone lo scatto all’aiutare il sofferente – se si vogliono fare delle foto “interessanti” devi cercare di avvicinarti il più possibile al soggetto in modo da dare forza e contestualizzazione all’attività di colui che stai fotografando. Altro elemento importante è l’obbiettivo e le aspettative dei partecipanti. Ho sempre un po’ il timore che le persone non abbiano ben chiaro che con me si viaggia per fotografare e che proprio l’aspetto fotografico è l’elemento primario che muove il viaggio. Questa filosofia, se ben chiara e ben recepita dai partecipanti, è un fantastico collante che, almeno nelle fasi iniziali, tiene unito il gruppo. Questo comun denominatore aiuta infatti a socializzare e permette poi di creare un ambiente che favorisce e può trasformare i rapporti in vere e proprie durature amicizie. Ciò non impedisce però di godersi il viaggio anche ad eventuali non “malati” di fotografia – Riccardo non aveva nemmeno una compatta ma al termine del tour ha affermato di aver vissuto una delle esperienze più belle della sua vita – l’importante è però avere tale consapevolezza. Mi spiego meglio; l’entusiasmo legato alla vacanza in questo senso è tale se mi sveglio la mattina all’alba per catturare il primo raggio di sole che accende lo sguardo assonnato di una donna al pozzo e non se mi bevo un finto cappuccino alle 9 davanti ad un ricco buffet con scramble eggs e muffins al mirtillo. Mi rilasso quando il secondo giorno Massimo, cavalletto montato, fotografa anche la “notte”, mentre sul truck Pierangelo inizia a condividere con noi le sue conoscenze ed esperienze ottiche e fotografiche. Lo spirito è quello giusto. L’ultimo elemento importante per la buona riuscita è l’organizzazione tecnica del viaggio. Ma, in questo caso, l’unica cosa che non mi preoccupa né mi preoccupava. Dopo l’esperienza dell’anno scorso sapevo che Stefano e Francesca dell’Africawildtruck sono il massimo dell’affidabilità, competenza e professionalità. A posteriori, seduto nel salotto della mia casa fiorentina, mentre sto scrivendo il resoconto del viaggio, non posso che confermare: tutto è andato alla grande! Direi quindi che fin da subito ho potuto godermi il viaggio: quegli elementi d’imprevedibilità che potevano comprometterne la riuscita si sono invece trasformati in fedeli alleati. Analizzando i 21 giorni trascorsi possiamo dividere l’esperienze fotografiche in due grandi temi: gli animali e le persone. Per chi mi conosce sa che non sono un fotografo naturalista e, devo dire onestamente, non mi entusiasma nemmeno più di tanto fotografare gli animali. Non mi si fraintenda, io li adoro. Starei delle ore a vedere gli elefanti giocare nelle verdi acque del fiume che attraversa il parco Samburo oppure osservare gli ippopotami sbuffare a pelo d’acqua durante l’escursione in piroga nel Baringo. E’ bellissimo il colpo d’occhio sul Nakuru dove, come in un quadro dei Macchiaioli, migliaia di fenicotteri punteggiano di rosa le rive del lago, mentre bufali e rinoceronti osservano curiosi. Mi sono anche divertito quando l’indiscussa regina dei cieli africani, la fish eagle, con un’eleganza degna del suo rango, afferra un pesce che affiora a pelo d’acqua per portarlo nel proprio nido dove, molto probabilmente, condividerà con piccoli aquilotti. Insomma la natura mi affascina, ma solo come spettatore, niente più! Ammiro quei colleghi che riescono a tirare fuori degli scatti magnifici dagli animali; l’amico Gianni Maitan nel suo ultimo libro ha delle foto veramente uniche e grandiose. Ho anche tentato di fotografare l’accoppiamento dei leoni oppure il movimento ondulante delle giraffe in corsa piuttosto che il brucare delle zebre nella bruma mattutina, ma… Mi sono detto lascia perdere, torna alla gente, quella gente che ti ha permesso, dopo 7 anni di viaggi, di uscire con il tuo libro fotografico: “Afriasia” edito dalla Polaris (www.polaris-ed.com). Complimenti invece agli scatti veramente interessanti di Gianluca – grandiosi quelli relativi all’aquila pescatrice -, di Iuri – molto bello il ringhio della leonessa – e anche di Duccio e Fabrizio. Durante questi viaggi, feste a parte, non c’è un luogo specifico eletto a set fotografico, ogni momento, dalla sosta per il pranzo alla pausa pipì, può essere l’occasione giusta per un grande scatto. Quindi ogni piccolo villaggio durante le tappe di avvicinamento al Turkana ci vedeva con le macchine pronte – Luigi davanti a tutti – e, anche se la gente non si è sempre dimostrata disponibile a farsi fotografare, le opportunità non sono certo mancate. Ma è con l’arrivo al grande lago che l’euforia fotografica collettiva raggiunge uno dei suoi massimi. Accompagnati da un ragazzo locale trascorriamo tre giorni passando da una capanna El Molo ad una Turkana, da un villaggio Rendille a uno Samburo. Le tribù sono diverse ma la contiguità abitativa e la stanzialità acquisita negli ultimi decenni ha fatto perdere, nei comportamenti sociali così come nei costumi, la singola tipicità. Come dei bambini che in un negozio di giocattoli restano inizialmente smarriti da tante opportunità di “azione”, così anche noi rimaniamo un po’ interdetti non sapendo dove indirizzare gli obiettivi delle nostre macchine. Siamo già a metà viaggio e le discussioni fotografiche affrontate intorno al fuoco del campo serale o durante gli spostamenti in truck stanno cominciando a fare effetto. Non si scatta più “a caso” sull’onda della novità emotiva di inizio tour, ma ci si guarda intorno con occhi diversi. Ci si sofferma di più a cercare il giusto equilibrio. Gianluca, Pierangelo così come Iuri e Duccio sono più attenti agli sfondi, si muovono intorno al soggetto per cogliere il taglio e l’espressione più interessante. Fabrizio, il “pifferaio magico” del Mozambico che si ritrova come allora circondato dalle grida prima sorprese e poi sorridenti dei bambini del villaggio, comincia a prendere confidenza con la sua nuova D40x. E’ l’alba e la calda luce del mattino ci offre delle sfumature cromatiche appassionanti, mentre si accrescono, grazie alla forza modellante delle ombre, i tratti profondi nei volti di vecchi pastori. Lo sfondo del lago fa da cornice alle capanne dei Samburo che, per una strana assonanza architettonica, ricordano nella forma gli igloo degli Inuit dell’Alaska. Al posto del ghiaccio, i “mattoni”, che ne costituiscono la struttura, sono della semplice paglia intrecciata mista a stoffa di lana caprina. Ci muoviamo tra donne agghindate con collane di perline multicolore; guerrieri Morana con le piume in testa e nella mano la lancia, strumento necessario ancora oggi per affrontare ataviche prove di coraggio; vecchi sciamani intenti alla pratica di antichi rimedi olistici. Dopo un comprensibile smarrimento iniziale degli abitanti i nostri sguardi s’incontrano e da quei faccia a faccia riportiamo momenti, situazioni, espressioni. Sorpresa, dignità, tenerezza, allegria tutti questi elementi partecipano alla composizione di un paesaggio umano straordinario e singolare. Il sole raggiunge presto una posizione alta nel cielo e le ombre che prima, nostre fedeli alleate, si proiettavano lunghe e sinuose creando magiche atmosfere intorno al mungere delle capre o al lavare dei piatti, stanno diventando più corte e i colori, piano piano, perdono quel calore che dava fascino e profondità ai nostri scatti. Mi guardo intorno e non vedo più nessuno di noi. Che strano! Mi muovo nel villaggio e un “rumore” conosciuto nel modo ma non familiare nel suono (scopro poi essere lo scatto di una Canon, un po’ “stonato” devo dire), mi fa avvicinare ad una capanna. Una bella donna Rendille mi invita ad entrare. Lì nella sua umile ma dignitosa dimora Stefano e Ric stanno fotografando un’incredibile scena familiare. Due donne sedute intorno al fuoco stanno scaldando l’acqua per il tè che ci viene gentilmente offerto. Un bambino seduto su un letto di paglia sta, molto probabilmente, ripassando i compiti di scuola. Due raggi di luce filtrano da un’apertura e creano una magica scia bianca illuminando il pulviscolo in sospensione nell’ambiente. Una mamma accudisce il suo piccolo mentre nel contempo alimenta la brace. Mi siedo insieme ai miei compagni. Mi guardo intorno e penso a come poter fermare questo momento. Parafraso una frase scritta da Coelho: la fotografia è un pensiero che si manifesta. Quindi deve nascere dentro di noi, magari sotto gli stimoli di una situazione esterna. Dobbiamo, per realizzarlo, apprendere la giusta tecnica fino a quando non diventi un riflesso quasi meccanico. Ma non dobbiamo prescindere in alcun modo dall’intuizione. L’intuizione non ha niente a che vedere con la meccanicità, la routine, anzi, riguarda uno stato d’animo, un qualcosa che nasce dentro di noi e che, come Cartier Bresson insegna, fa sintonizzare cuore, mente e scatto sulla stessa lunghezza d’onda. L’intuizione è un qualcosa che non si apprende e che travalica la tecnica. Si arriva ad un punto in cui non è più necessario pensare a ciò che si sta facendo e in quel momento il fotografo è tutt’uno con la macchina fotografica e lo scatto è l’intuizione che si proietta nello spazio e si manifesta poi nella stampa. La conoscenza della tecnica fa sì che le mani siano pronte per scattare mentre l’occhio inquadra ciò che si accinge a fotografare, ma è l’intuizione, l’istinto che fa premere il pulsante di scatto al momento giusto, nell’attimo in cui il tempo si ferma e si congela. Qualcosa è venuto fuori, ma ciò che all’occhio sembrava così semplice e immediato mi ha portato via più di un’ora di tempo per realizzarlo. L’intuizione è veramente qualcosa di imprevedibile, non sempre è così immediata, non sempre nasce e si sviluppa nel momento opportuno. Pur essendo soltanto le 9 il sole è ormai alto nel cielo e la luce non è più interessante, fotograficamente parlando. Torniamo al lodge, ognuno carico di emozioni, ognuno con la sua compact flash piena di immagini, ognuno pronto a scaricare i propri lavori. Riccardo, che non ha niente da “scaricare”, si prepara per una battuta di pesca sul lago. Noi invece ci rilassiamo nelle calde acque termali che sgorgano da una sorgente nelle montagne che circondano il Turkana e che vengono raccolte nella piscina del lodge. Duccio, Dany, Iuri, Massimo, Gianluca e gli altri non perdono occasione per affrontare discussioni di tecnica fotografica e, grazie anche all’aiuto del nostro fisico Pierangelo parliamo di lenti, obiettivi, telecentricità e schemi ottici. Il tramonto si avvicina e ci prepariamo a ripartire per i villaggi El Molo e Turkana. La luce, come una prima attrice di teatro all’inizio del secondo atto, torna in scena con prepotenza. Le due ore che trascorriamo tra queste tribù volano. Gli scatti aumentano d’intensità quando il disco solare comincia a diventare prima arancio per poi sfumare in un rosso sempre più intenso. Le silhuette delle acacie si fondono con il profilo regolare di una giovane Turkana; l’uso del teleobiettivo combinato con un’apertura di diaframma abbastanza chiusa crea un’immagine molto schiacciata sullo sfondo. Scattiamo come trasportati da un’estasi al limite della misticità e quando il sole scompare all’orizzonte e il cielo inizia a diventare scuro torniamo al lodge dove ci prepariamo alla partenza del giorno seguente. Finita l’esperienza del lago il viaggio è giunto oltre la metà; è volato! Molti di noi sono ampiamente soddisfatti del proprio lavoro e non si arrabbiano più di tanto quanto tentiamo, inutilmente, di fotografare i Gabbra, popolo molto ostile che incontriamo lungo la via del ritorno, a circa 100 km da Marsabit. La fotografia, per sua natura, ti permette di aprire una breccia nella continuità infinita del tempo fermando dei momenti che altrimenti sarebbero passati così, magari con indifferenza, scanditi dallo scorrere quotidiano degli eventi. Quando ti rendi conto che potresti essere l’ultimo testimone di una tradizione millenaria con le sue regole ancestrali e primitive ecco che l’entusiasmo per il lavoro che stai facendo riempie di positive sensazioni il tuo cuore e la tua mente. Ecco che emerge con prepotenza il ruolo del fotografo di reportage: testimoniare gli eventi che caratterizzano la propria epoca. Una di queste occasioni si manifesta quando, nemmeno più di tanto preparati, arriviamo ai cosiddetti pozzi cantanti dei Borana. A 2 km appena fuori dalla cittadina di Marsabit ci caliamo in una realtà che si ripete da centinaia d’anni con gli stessi ritmi, gli stessi movimenti, i medesimi spostamenti. Il tempo si muove in modo diverso. Il suo procedere è lento, talvolta sembra essersi fermato agli albori della civiltà. Credetemi non è un’esagerazione! E qui, tra genti e situazioni improbabili, un suono dapprima ovattato e poi ben presente come un sorta di ritmica nenia, ci introduce una scena incredibile. Questa musica nera accompagna il trasporto di secchi dallo scuro fondo del pozzo alla luce della bocca esterna dello stesso dove poi l’acqua viene versata riempiendo un grande canale atto ora al riempimento degli otri da parte delle donne, ora all’abbeveramento di mandrie di asini e bovini. Questo è uno di quei momenti in cui l’essere partecipe di un simile evento e poterlo ancora fotografare ti riempie di sensazioni profonde. Meraviglia, gioia, attesa, eccitazione tutte emozioni che come in un caleodoscopio si sovrappongono e prendono in forma alternata il sopravvento l’una sull’altra. Mi calo all’interno del pozzo proteggendo la mia Nikon dall’acqua che fuoriesce dai secchi e lì, stretto nel cilindro fangoso, in equilibrio precario su tronchi umidi e scivolosi inizio a scattare con la consapevolezza di stare vivendo una storia che in un futuro molto prossimo verrà sostituita da un semplice macchinario idraulico. Mi tornano alla mente le parole di Ian Tattersall che ho avuto modo di leggere poco tempo fa: “la popolazione umana mondiale ha superato i cinque miliardi di persone e continua a crescere. Le moderne tecniche di trasporto si prendono gioco delle nozioni di distanze e di barriere geografiche. Gli individui sono incomparabilmente più mobili di quanto lo siano mai stati. L’isolamento di popolazioni in seno alla nostra specie è un fenomeno che appartiene al passato, mentre il mescolarsi delle persone di ogni provenienza geografica non cessa di amplificarsi. Sicché ai giorni nostri, le condizioni di un’autentica innovazione evolutiva sono, senza alcun dubbio, totalmente inesistenti. Formiamo una sola e vasta popolazione che ricopre tutta la terra: assolutamente mai nella storia di nessuna specie, le condizioni sono state meno propizie alla determinazione di novità evolutive, a meno che non accada qualche catastrofe”. Beh certamente Tattersall non è mai stato dentro un pozzo Borana dove lo scorrere progressivo del tempo sembra qui andare contro le classiche leggi della fisica ed ancora sembra che persista un isolamento dal resto dell’umanità, ma chissà per quanto ancora. E mi chiedo: sarà veramente un cambiamento in senso evolutivo quando le possenti braccia dei neri Borana e il melodico canto che li accompagna verranno sostituiti dal fastidioso scoppiettare di una pompa idraulica alimentata da un moderno generatore a gasolio? Non ho una risposta e né tantomeno la voglio cercare. Con questa immagine ancora viva negli occhi chiudo il resoconto di viaggio e la nebbia che ci avvolge il mattino seguente quando ci prepariamo a lasciare questo luogo, è un epilogo magico ad un vissuto in via d’estinzione. Come sempre l’occasione mi permette di abbracciare virtualmente tutti voi lettori, spero di non avervi annoiato più di tanto e se qualcuno, magari incuriosito da questo modo “alternativo” di viaggiare si vorrà aggregare ne sarò ben felice. Quindi al prossimo viaggio… India molto probabilmente. Un grazie a tutti i partecipanti che ancora una volta sono stati dei fantastici compagni di viaggio e sono diventati, alcuni lo erano già, dei nuovi e cari amici: Luigi, Iuri, Pierangelo, Gianluca, Duccio, Ric, Riccardo, Massimo, Fabrizio e un bacio a Daniela. Un grazie all’Africawildtruck una “creatura” di Stefano e Francesca (diventati amici fraterni nonché dei veri professionisti del viaggio con un solo difetto: canonisti. Ma nella Nikon School Travel siamo democratici). Un grazie alla Nital (l’obiettivo 200-400 VR – uno dei tanti che mi hanno messo a disposizione – è stato eccezionale) in generale e un abbraccio a Marco Rovere. Infine una piccola promozione al mio nuovo libro fotografico ” Afriasia ” appena uscito edito dalla Polaris. Contiene 80 scatti in grande formato eseguiti nei due continenti, Africa e Asia, nel corso di 7 anni di viaggi; di ogni foto vengono forniti molti dei dati tecnici relativi allo scatto. Per maggiori informazioni Afriasia oppure scrivete a info@edoardoagresti.it