Shukuru che cosa ci fai sul truck?’
‘The lion is coming!!!…the lion is coming!!!’
Il silenzio della savana è interrotto dalle nostre emozioni variamente incontrollate dopo un brusco risveglio da un sonno non del tutto tranquillo.
Al ruggito del leone segue ogni sorta di rumori, dalle aperture affannate delle tende alla legna trascinata ed il crepitio del fuoco ravvivato, alla corsa di Shukuru – il meccanico tanzaniano che ci accompagna nella spedizione- sulle assi del camion, al ritorno di Sukuru in compagnia di un coltello da cucina. Le pile perlustrano il buio e le voci ‘Nunzio…Nunzio…Stefano che succede?…Gianni sei fuori?…Esco a vedere…Chiara non provare ad aprire la tenda!…’ si perdono nella notte.
Del leone neanche l’ombra, almeno per un raggio di 20 metri da noi. Cioè l’equivalente di tre balzi. Tutte le tende ed i sacchi a pelo si richiudono. Gli occhi restano sbarrati.
Ore 2,30. L’unico che è riuscito a riprendere sonno russa. Un russare pesante, quasi un ruggito.
Il fuoco crea grandi ombre, sembrano movimenti di animali venuti a curiosare tra le sei cupole grigie montate a ridosso del camion, in sosta vicino al tronco abbattuto sul bordo del fiume, che scorre con acque lente nel Ruaha National Park, Tanzania.

La sera, intorno al fuoco, avevamo parlato dei due leoni che nel pomeriggio si erano accoppiati a pochi metri dal nostro mezzo, stupiti per la loro totale indifferenza alla nostra presenza, a quella del grande truck arancione e alle centinaia di scatti fotografici accompagnati da striduli suoni di elettronica varia.
Poi, come un misto di cinismo e scaramanzia porta a parlare di disastri aerei mentre si sorvola a 9000 metri il Sahara, subito a raccontare delle letture e dei film sui leoni mangiatori di uomini. Di come lo diventano e di come, nella costruzione della ferrovia Kenia-Uganda un paio di leoni avessero trovato carne sempre fresca cibandosi degli operai che dormivano nelle tende del cantiere.’Notte dopo notte…udivamo le urla delle vittime sbranate dai leoni che banchettavano senza paura vicino alle tende per poi, sazi, sparire nell’oscurità.’ Così scrive Ryszard Kapuscinski nel suo ‘Ebano’, libro che, quasi tutti, all’insaputa gli uni degli altri, abbiamo portato in viaggio. Sarà proprio stata una scelta casuale?

Partiti da Dar es Salaam e diretti in Malawi su un veicolo 4×4 attrezzato per 14 posti, dopo 650 km e due giorni di viaggio, affrontiamo la nostra prima notte al Ruaha.
All’ingresso abbiamo ricevuto il benvenuto da due teschi di bufali ed uno di kudu, piazzati sui cartelli di raccomandazioni ai turisti di non infastidire gli animali, da decine di uccelli di grandi dimensioni che ci roteavano sulla testa e da ippopotami e coccodrilli che sguazzavano allegramente nel fiume.
Lo stesso fiume lungo il quale stiamo cercando di fare passare la notte.
Sono ormai le 4. Le voci della savana alimentano la mia insonnia così illumino a giorno la guida e leggo: ‘…non esistono parole per introdurre il visitatore alla bellezza del Ruaha. Il suo fascino risiede forse nell’essere una zona remota con aree ancora inesplorate. Secondo parco della Tanzania come estensione (dopo il Serengeti) il Ruaha copre un’area di 10.300 km quadrati e prende il suo nome dal Great Ruaha River che scorre per 160 km lungo il confine sud-est del parco. Istituito ad area protetta nel 1964, tre anni dopo l’indipendenza del Tanganika dalla Gran Bretagna, il parco ospita 10.000 elefanti, 8.000 giraffe, 430 specie di uccelli oltre che grandi mandrie di bufali, kudu, antilopi, leopardi, iene, facoceri, babbuini, zebre, sciacalli,…’ e rumori, piccoli passi sulla terra vicino alle tende. Troppo vicino.
Cerniere delle tende nuovamente all’opera. Poi pile che illuminano in ogni direzione, come in un film con fuga dal penitenziario. Ad una estremità del tronco abbattuto due occhietti ci fissano. Un musetto affilato interrompe la fuga per osservare quello strano essere composto da tante teste, tante gambe e tante braccia che, addossate le une alle altre, sorreggono dei fasci luminosi. Sul grande palco della savana, illuminata come una diva, ha fatto la sua comparsa una genetta.
Poco più grossa di un gatto, col muso volpino ed una lunga coda, la genetta è un parente della mangusta ed ha abitudini notturne. Deve essere sicuramente anche molto curiosa, magari anche un po’ vanitosa perché così osservata si dedica alla toeletta, si lecca il pelo, si liscia la coda e si accoccola sul tronco. Non resistiamo alla provocazione ed entrano in azione i flash. La genetta finisce la pulizia, ci guarda un’ultima volta e, forse per timore di dover anche rilasciare autografi, si allontana tra gli alberi saltando di ramo in ramo.
Siamo tutti in piedi con le pile spente, per non disturbare la luce di un cielo stellato tanto bello da commuovere.
Qualcuno ha messo a bollire l’acqua sul fuoco.
All’orizzonte sorgono i soli di Orione, che in questo emisfero ed in questa stagione preludono all’alba. Nella penombra distinguiamo movimenti di elefanti nel fiume ed il sole, il nostro, ormai fa sbiadire quelli lontani e ci regala uno dei momenti più belli dell’Africa. I colori del cielo si riflettono nelle tazze col té che sorseggiamo in silenzio, seduti sul tronco, felici di bere un bicchiere di arcobaleno.

Giorgio Enrico Bena
Settembre 2005