Nikon school travel Safari in Tanzania. Di Edoardo Agresti
Nikon school travel Safari in Tanzania. Di Edoardo Agresti: “Non si può scegliere un sogno, non si può scegliere. Quando ti arriva ti arriva non c’è niente da fare. Le previsioni del tempo si posson prevedere, ma un temporale che arriva non lo puoi fermare.”
Jovanotti, Safari
Safari in Tanzania
Seduto sulla cabina del truck di Stefano e Francesca i miei pensieri si trasformano in lettere. L’Amore non si spiega fa girare il mondo e poi, se non c’è, diventa tutto inutile… il pianoforte di un noto pezzo di Cammariere accompagna queste parole che escono con una melodia jazz dalle cuffie del mio ipod. Discendo verso la Rift Valley e davanti ai miei occhi un camion carico di legname porta la scritta “Life is unpredictable”.
Il viaggio sta inevitabilmente giungendo al termine e anche tra i partecipanti aleggia un senso di sospensione. Un innaturale silenzio scende improvviso durante la colazione. Come i minuti che precedono i titoli di coda di un film durante i quali rimani sospeso a riflettere su ciò che hai appena visto, così questa mattina la parola si fa muta: mentre Luigi si appresta a tagliare gli ultimi formaggi rimasti, non si sentono più le risa di David, le battute di Marchino, i racconti di Luciano. Per una volta le angosce di Mattia trovano una giustificazione alla triste atmosfera mattutina, mentre sguardi d’invidia si indirizzano verso Lara che prolungherà di una settimana il suo soggiorno africano. Anche il paesaggio lungo la strada verso Dar sembra adattarsi a questo insolito risveglio: il blu dei fiori di Cirsium e il viola della jacaranda fiorita si trasformano nella valle dei baobab dove migliaia di questi grigi pachidermi vegetali si ergono, goffi nella loro strana forma, su brulle colline selvaggiamente disboscate. Eh sì, purtroppo anche questa volta un altro “mio” Nikon School Travel sta giungendo al termine e un senso di vaga nostalgia aleggia nell’aria.
Tutto ha avuto inizio 15 giorni prima quando, all’aeroporto della Malpensa, ci siamo incontrati, tra vecchi e nuovi partecipanti, al check in della Egypt Air. Una gioia rivedere persone “lontane” che non ho occasione di frequentare altrimenti: come Lady Anny dal Veneto o David “Blinking Idiot” dalla Sardegna. Una forte curiosità fare la conoscenza di nuovi viaggiatori-fotografi come Mauro, Paolo, Serena e Annalisa. Ognuno con i suoi bagagli più o meno calibrati sulle misure del truck, con i suoi zaini fotografici pesanti almeno 2 volte il peso consentito come bagaglio a mano, ma soprattutto ognuno con aspettative e obbiettivi legati a filo doppio con la fotografia. Sono ormai oltre 10 anni che conduco workshops di fotografia di reportage sia in Italia che in giro per il mondo, ma, al momento di una nuova partenza, vengo sempre assalito da dubbi e anche questa volta un lieve imbarazzo accompagna i saluti di rito. Infatti, tutte le volte che conduco un workshop, un filo di inadeguatezza mi assale: ma si può veramente insegnare la Fotografia di reportage? Da quello che si legge in giro, tra Facebook e qualche elementare ricerca su Google, ogni settimana ci si potrebbe iscrivere a uno o più corsi su tale argomento. Sembrerebbe essere la cosa più banale del mondo. Sarà forse un mio limite, ma mi consolo quando leggo che prima di me uno dei grandi della fotografia ha avuto i miei stessi timori: alla domanda del figlio, “Padre insegnami a fotografare”, George Rodger risponde: “Penso che nessuno potrà indicarti in che modo agire, a parte raccomandarti di essere onesto con te stesso. Certamente, non puoi interpretare cosa vedi nel mirino senza avere la giusta conoscenza di cosa si tratta. Devi sentire una certa affinità verso quel che fotografi. Devi esserne parte e al tempo stesso rimanere sufficientemente distante e guardarlo in modo obiettivo. […] Purtroppo non esiste formula per acquisire questa “conoscenza – a – memoria”, questa comprensione. E’ qualcosa che nascerà spontaneamente dal profondo di te stesso”.
Come posso quindi insegnare qualcosa che è intimamente legato alla persona. Io non potrò mai essere parte di un altro, conoscere il suo trascorso, i suoi sentimenti, le sue paure, i suoi sogni, le sue angosce: perché la Fotografia, oltre la tecnica, è anche questo.
Molti pensano invece che sia un lavoro, una professione come un’altra; nel momento in cui diventa tale, o meglio nel momento in cui la sentissi tale, forse dovrei fermarmi a riflettere, a guardare dentro me stesso per capire veramente se andare avanti. La Fotografia è vita, è gioia, è dolore. La Fotografia è un qualcosa che ti entra dentro e, a volte con violenza altre dolcemente, ti fa esplodere emozioni. E’ un modo di essere è un modo di camminare; è un modo di bere, di mangiare. Il fotografo vede cose che altri non vedono dice Gardin, ma questa capacità nasce dalla bressionana espressione di mettere sulla stessa linea di mira mente, occhi e cuore. La Fotografia è un bisogno fisico, è una sinfonia di Beethoven, una composizione jazz di Coltrane, una giusta mistura di tecnica, equilibrio e sentimento. E’ un innamoramento continuo, lento, costante. E’ una donna riservata, timida, silenziosa che si lascia scoprire poco per volta. E’ paura, rischio, è pura adrenalina. E’ un pianto nascosto, imbarazzato. E’ un dolore cupo, sordo, intimo e personale. E’ un grido infinito. E’ un sorriso rubato, uno sguardo cercato e a volte non trovato. Un incontro inatteso, una speranza sognata, un figlio donato. La Fotografia è Amore. Chi scatta, ma non sente tutto ciò o peggio ancora non comprende questo legame viscerale, profondo che associa la Fotografia alla Vita, beh credo che non dovrebbe permettersi di chiamarsi fotografo, di appropriarsi di un termine che già etimologicamente è poetico: colui che scrive con la luce. Purtroppo l’ignoranza culturale e la bassezza morale di alcuni discutibili personaggi usurpa tutto ciò. Offende l’essenza e l’anima dello scattare. C’è chi si permette di dare etichette o ruoli al Fotografo: il matrimonialista, il naturalista, il reportagista, l’industriale e così via. Non ha capito niente. Non importa se fotografi matrimoni, animali, guerre, orfanotrofi, case, statue o gioielli, qualsiasi cosa tu stia riprendendo parlerà di te, del tuo passato, del tuo vissuto, del tuo carattere, del tuo ruolo di Uomo nel mondo. Scianna in una sua recente intervista, alla domanda del giornalista su quale sia la sua professione, risponde: dicono sia un fotoreporter, qualsiasi cosa questa parola voglia dire.
Chi non comprende questo non è altro che un lavorante della Fotografia, senza una storia, senza un percorso, senza una analisi e che solo per soldi si improvvisa artista, a volte addirittura si fa chiamare maestro.
E allora chi partecipa ai miei workshops non sentirà parlare di regola dei terzi, gestione del colore, equilibrio delle masse o del giusto rapporto tempo/diaframma, ma mi vedrà in azione. Vedrà un piccolo fotografo che si muove tra la gente, che osserva, che ruota intorno ad una scena, che ricerca la sua luce. Vedrà come entra in empatia con il soggetto, vedrà come dispone le sue macchine allo scatto, ma soprattutto, la sera o quando ce ne sarà l’opportunità, magari accompagnati da una buona birra ghiacciata, vedrà quello che la sua mente, i suoi occhi e il suo cuore hanno visto. Sentirà parlare di Bresson, di McCurry, di Capa, di Koudelka, di Giansanti, di Zizola, di Cito, di Masturzo, di Pellegrin, di Dworzak, di Fusco, di Rai, di Iodice, di Berry, di Salgado… Cercherà il confronto con gli altri del gruppo (in questo viaggio in particolare con il giovane Antonio, di cui sentirete sicuramente parlare in futuro), perché c’è sempre da imparare. Spiegherà perché, a suo giudizio, una foto è più interessante di un’altra (Paolo ne sa qualcosa e Serena, con i suoi scatti “verticali”, lo stesso); metterà a disposizione la sua esperienza per “correggere” – a chi avrà il “coraggio” o la spudoratezza di farli vedere – alcuni dei propri scatti (non è un caso se Annalisa, la vincitrice del Polaris Photo Contest edizione 2009, e Fabrizio forse le persone più riservate e per certi aspetti più timide del gruppo, non mi abbiano fatto vedere una sola delle loro foto in viaggio). Credo che questo sia il modo migliore per crescere e per apprendere nella Fotografia. Questo modo di “insegnare” non ammette trucchi, le immagini sono l’unità di misura di quanto vali e di come sei. Se vuoi capire chi hai davanti impara a leggere le sue foto. Non importa se fotografi da un mese o da dieci anni, certo la tecnica è importante, direi fondamentale in certe situazioni, ma se ti impegni la impari in poco tempo e, oggi, internet ti permette di farlo rimanendo comodamente seduto davanti a un computer. Ma la Fotografia va oltre. E’ la tua sensibilità, quella parte segreta e privata che alcuni tengono gelosamente nascosta mentre altri a volte la ostentano in modo quasi eccessivo, a fare lo scatto. Forse a chi inizia potrà uscire sfocato, sottoesposto, bruciato, ma se avrà messo se stesso nello scattare sarà comunque partito con il piede giusto.
Ma torniamo al viaggio, anche stavolta, magistralmente organizzato da Africawildtruck nelle persone di Stefano e Francesca! Come nella fotografia non basta una macchina per essere un bravo fotografo così tra i tour operator non basta avere un mezzo per realizzare un grande viaggio, nello specifico, fotografico. Occorre attenzione alle esigenze del gruppo, capacità di risolvere i problemi, capire in anticipo le necessità di ognuno. Occorre avere contatti giusti che solo il vivere per oltre 8 mesi l’anno sul territorio ti permette di avere. Occore sapere come muoversi tra la burocrazia africana spesso senza senso, ma vincolante in molte situazioni. Occorre immediatezza nel risolvere imprevedibili “incidenti” di percorso quando ti muovi in paesi con culture e rapporti interpersonali profondamente diversi dai nostri standard occidentali. Ma soprattutto occorre avere maturità nel viaggiare e solo l’esperienza degli oltre 10 anni di vissuti africani ti permette di raggiungere.
Safari in Tanzania. Nella concezione comune la parola safari si associa sempre all’idea del muoversi tra gli animali, magari in qualche famoso parco nazionale tra leoni, giraffe, gazzelle e la Tanzania è un vero paradiso sotto questo aspetto naturalistico. Ma un safari fotografico con Agresti? Chi mi conosce sa che adoro gli animali, ma non ho assolutamente le capacità, il tempo e la cultura per fotografarli e quindi li evito come evito del resto qualsiasi cosa bella – fotograficamente – che non posso o meglio non sono in grado di fotografare. In realtà safari è un termine swahili che significa viaggio e credo sia importante ridare alle parole il loro giusto significato.
Ognuno può dare al safari la sua personale visione, può essere un cammino introspettivo, una ricerca interiore, può voler dire l’andare senza una meta, può essere una fuga dal mondo, oppure semplicemente una parentesi nella quotidianità. Puoi viaggiare muovendoti con un mezzo oppure rimanendo seduto a guardare l’infinito. Quello che è certo è che al viaggio si associa qualcosa in movimento. Ed è curioso come mettendo l’aggettivo “fotografico” al “viaggio” si annulli la connotazione dinamica del soggetto. Il viaggiare implica un percorso temporale positivo in senso progressivo, un andare avanti. Il fotografare invece annichilisce il tempo, congela un momento. Scianna afferma che, senza questo aspetto, verrebbe meno il 90% della Fotografia.
Reportage è una parola che deriva dal francese e vuol dire “riportare” nel senso di raccontare. Quindi un viaggio fotografico in chiave reportagista lo si può definire come la storia di un movimento di attimi infiniti, senza tempo. Nel reportage è quindi sottointesa la “notizia”, la descrizione di un evento, di una situazione e la fotografia è il recipiente che la contiene e a volte la valorizza. Mi è difficile descrivere a parole quello che abbiamo visto e quindi mi prendo in prestito quanto Francesca scrive in Facebook nella pagina ufficiale di AWT “Gli scatti sono iniziati al mercato del pesce di Dar es Salaam, tra barche e pescatori a ridosso di una delle più grandi baie d’Africa, proseguiti poi alla scuola di Chalinze, dove abbiamo avuto al fortuna di assistere alle prove della recita scolastica e poi alle saline di Saadani, dove, come qualcuno lo ha già definito, “l’oro bianco”, ha dell’incredibile forza: la produzione avviene ancora quasi completamente a mano. Cambio di scena per l’atmosfera rilassata di Lushoto, ma ci immergiamo subito nelle piantagioni di sisal: si segue la lavorazione di questa fibra naturale che è uno dei principali prodotti di esportazione della Tanzania: una macchina infernale tritura le foglie, dopo l’essiccazione una pressa ne riduce il volume e poi la preparazione per la vendita, in tutto il mondo […] Alle coltivazioni di fiori decorativi Cirsium supernova dedicati al mercato internazionale, all’asta dei fiori di Amsterdam…”. Un volto diverso e inconsueto della “solita” Tanzania, fatta di leoni, elefanti e altri altri animali più o meno selvaggi.
La piccola selezione di 13 immagini, tanti quanti erano i partecipanti, cerca di sintetizzare ognuno degli aspetti che hanno caratterizzato il viaggio. Credo che le parole di Gianluca Favetto tratte da un suo recente libro che mi sono “divorato” in due giorni di assidua lettura siano il giusto modo di accompagnarle e di concludere questo ultimo safari. Spero di non avervi troppo annoiato.
“…io non so come la penso, io sento, scrivo con la luce, anzi è la luce che scrive per me, io vedo e, nell’attimo in cui la visione è completa, scatto, è come se la visione scattasse per me, in quel momento sono io la fotografia, e questi sono i risultati” dice indicando le immagini incorniciate. “Accade e tu non sai, non sei più lì per dire come è successo, perché è successo, perché il dito è scattato, come quando scatta la palpebra; c’è qualcosa di superiore, sei convinto di essere presente e invece c’è la grazia, non sei più tu; c’è altro, una forza, un’energia non umana che agisce per te, un buco e non sai più calcolare la distanza fra te e quello che fai, quello che fai viene da lontano, sono miracoli”
Edoardo Agresti
http://www.blog.edoardoagresti.it/
Nikon school travel Safari in Tanzania. Di Edoardo Agresti